
L’ansioso si sente fragile, incapace di vivere in un mondo pericoloso, considera gli altri come minacciosi in quanto cattivi, giudicanti, rifiutanti, pronti a fregarlo. Questo suo mondo interiore si traduce quasi sempre in comportamenti di evitamento e ritiro interpersonale che finiscono per confermare la “verità” dei suoi vissuti. Qualcosa del tipo: “È proprio vero che io sono inetto, gli altri sono avvoltoi e il mondo è dei furbi e di chi sa aggredire”. La persona ha questa rappresentazione della realtà che difficilmente riesce a scalfire, anche perché spesso nemmeno la conosce o la riconosce. Vivere in un mondo così “rappresentato” è vivere in una giungla piena di insidie imprevedibili e incontrollabili rispetto alle quali l’ansioso si sente piccolo e indifeso; niente riesce a rassicurarlo e vive costantemente in attesa della catastrofe. Della morte.
In questo assetto interiore si percepisce l’impronta profonda di originarie relazioni fonte di insicurezza. Quando il bambino ha sperimentato per la prima volta queste sensazioni? Probabilmente in un tempo non archiviato nella “memoria cosciente”, sicuramente presente nella “memoria corporea”, nelle sensazioni di paura e angoscia difficili da definire eppure così devastanti, per una persona che avverte, vive, sperimenta il mondo pericoloso e sé piccolo e incapace.
Chi ha rassicurato quel bimbo da piccolo? Quanto era sicuro e tranquillo chi accudiva quel bambino? Quanto era in grado di calmare la paura del bambino e rassicurarlo? Quanto era capace quell’adulto, i genitori innanzitutto, di rassicurare prima di tutto se stesso? Come poteva funzionare da figura rassicurante se non era sicuro e tranquille esso stesso? Quali “decisioni precoci” ha preso quel bimbo per cavarsela, per trovare il modo migliore possibile di stare al mondo? Come ha imparato a governare situazioni e rapporti interpersonali?
Spesso, vediamo oggi quel bambino nell’adulto ansioso che adotta uno stile comportamentale organizzato intorno all’azione ripetuta di evitamento. I vari comportamenti di evitamento, ad esempio evitare luoghi e situazioni temute in quanto associate all’attacco d’ansia, evitare attività che provocano emozioni intense (arrabbiarsi, ma anche fare l’amore), evitare persone perché se ne teme il giudizio, evitare di stare soli, purtroppo non garantiscono di fatto una sensazione di reale rassicurazione. E ciò distingue proprio l’ansia “patologica” rispetto all’ansia “normale” in cui la persona riesce a trovare e utilizzare fonti di rassicurazione. Questi evitamenti finiscono solo per restringere lo spazio vitale ed espressivo della persona che progressivamente si riduce a vivere una vita sempre più piena di limiti e angoscia, vuota di soddisfazioni, relazioni, realizzazioni di sé. È il paradosso: l’evitamento offre un beneficio a breve termine (placare l’ansia) che a lungo termine amplifica il circolo vizioso che alimenta l’ansia in quanto la persona non si espone a situazioni che potrebbero rassicurarla in cui sperimenterebbe che non si muore di ansia e che i pericoli temuti non si realizzano.
La persona progressivamente arriva a vivere esperienze emotive quasi esclusivamente colorate di ansia e paura, alla ricerca della rassicurazione che non arriva mai. E di conseguenza cominciano ad emergere anche vissuti depressivi, senso di colpa e d’inadeguatezza, limitazioni gradualmente crescenti, insoddisfazioni sempre più frequenti, rapporti che si fanno sempre più tesi: sempre meno comprensione e sempre più distanza degli altri, rabbia, sconforto, solitudine.
Con questi accadimenti esterni ed interiori, l’ansia non è più solamente un disturbo psichico, è diventata sempre più un modo di stare al mondo. In psicoterapia si lavora per ridurre la sofferenza della sintomatologia ansiosa e, più profondamente, affinché la persona acquisisca un nuovo modo di percepire la realtà e vivere la vita, di stare con gli altri e con se stessa, di incontrare il giorno e governare la notte.

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